Un tempo i forni del pane, con la loro caratteristica forma tondeggiate all’esterno delle case, erano molto diffusi. Oggi sono quasi del tutto scomparsi e il comune di Valdisotto è sicuramente tra quelli che ne ha conservato più esemplari che altrove.
Il forno sporgeva dal muro della casa e in genere era coperto da un tettuccio. Poteva essere utilizzato da più persone e da più famiglie, e in tal caso diventava un caratteristico elemento comunitario. Anche la vecchia casa parrocchiale ne possedeva uno: nel 1787, infatti, sul libro dei conti sono annotate le spese per il disegno, la calcina e la fattura di un forno fatto realizzare nell’edificio del parroco. Anticamente gli Statuti comunali disciplinavano la fabbricazione di forni in paese, che dovevano rispondere a precise caratteristiche costruttive senza possibilità di sgarrare, pena un’ammenda pecuniaria. Il comune poteva mandare anche dei “controllori” per verificare il rispetto di queste disposizioni.
Il pane fatto in casa era una consuetudine in ogni comunità (il pane di bottega era un lusso); per prepararlo si utilizzava la segale coltivata nei campi (caratteristiche le foto di fine Ottocento/inizio Novecento con i covoni lasciati ad essiccare), anche se la cottura era limitata a periodi particolari (in primavera e in autunno) e si credeva che fatto in luna crescente fosse migliore e lievitasse bene.
Le pagnotte erano in genere di forma sferica con un buco in mezzo per poterle appendere e conservare a lungo. Infatti, si consumavano secche e si tagliavano con la gramola. Dalla semina alla lievitazione e cottura, il processo di lavorazione culminante nella panificazione richiedeva un lavoro lungo, faticoso e minuzioso in cui tutta la famiglia era coinvolta, anche i bambini. Particolare attenzione richiedeva la cernita dei chicchi poiché quelli neri, che erano tali perché attaccati da un fungo velenoso (e la spiga, dunque, si chiamava “segale cornuta”), dovevano essere messi da parte e si utilizzavano solo in farmacia per preparati medicamentosi.
Solo verso la metà del Novecento questo lavoro paziente fu sostituito dalla macchina trebbiatrice, che veniva da Lovero e faceva il giro di tutti i paesi dell’Alta Valle tranne Bormio, che ne aveva una propria. I chicchi erano poi portati al mulino per la macinazione. Anticamente ve n’era uno a Oga sul rio Cadolena testimoniato sin dal 1676, di cui è rimasta solo una mola datata 1840 e conservata in una casa di Calosio.